Battaglie In Sintesi
13 - 14 febbraio 1352
Il padre Gregorio fu tra i primi membri della famiglia a preferire all'attività commerciale la guerra di corsa, costruendosi una flotta personale e cercando di far fortuna nel Mediterraneo. Egli si distinse sia nella lotta contro Pisa sia nella caccia alle navi catalane. Membro del ramo doriano uscito sconfitto dalle lotte che travagliarono la famiglia agli inizi del secolo XIV, Gregorio fu riammesso in città con l'accordo del 1307. È probabile che il Doria abbia imitato l'esempio del padre, forse ponendosi al servizio di una delle tante potenze che si contendevano il controllo del Mediterraneo orientale, zona, questa, che egli dimostrò di conoscere assai bene fin dal momento del suo primo comando ufficiale per la Repubblica genovese, nel 1350. In precedenza, di lui sappiamo solo che nel 1314 noleggiò al procuratore dell'arcivescovo di Palermo, Francesco di Antiochia, la sua galera per trasportare il prelato con il seguito da Corneto (l'odierna Tarquinia) nella città siciliana (18 settembre). Nel 1332, come procuratore di Tommaso Doria, fu presente alla vendita di una terra posta nel Savonese (20 agosto). Nel 1350 lo scontro tra Genova e Venezia assunse l'aspetto di una partita decisiva per il controllo del Mar Nero. Il fallimento dell'accordo tra le due potenze per una difesa comune di Caffa e di Tana, minacciate da Djanibek, khan dei Tartari, e l'insediamento dei Genovesi a Chio, col conseguente riavvicinamento tra Giovanni VI Cantacuzeno e Venezia per un attacco contro i Genovesi di Pera, furono gli avvenimenti che fecero precipitare la situazione. Le ostilità (iniziate nel settembre con piccole scaramucce locali e degenerate con la cattura di alcune navi genovesi nelle acque di Negroponte) furono ufficialmente aperte dall'accordo stretto tra Venezia, l'Impero bizantino e Pietro IV d'Aragona contro Genova. La Repubblica ligure, avvertendo il gravissimo pericolo che minacciava il cuore del suo impero economico, decise di compiere uno sforzo militare e finanziario enorme, per chiudere una volta per tutte la partita. Affidato il comando delle operazioni al Doria (che, quindi, doveva avere già avuto modo di far apprezzare le sue capacità, ma non sappiamo in quali occasioni), nel novembre il doge Giovanni Da Valente impose un prestito forzoso di 300.000 lire genovine, garantito con la creazione della "Compera magna Venetorum". I preparativi tecnici furono affidati a una commissione temporanea nominata dallo stesso doge; furono armate anche parecchie navi mercantili e si imposero arruolamenti, sia obbligatori sia volontari, ad ogni "villa" del distretto genovese (il totale dei marinai imbarcati raggiunse le diecimila unità). Il numero complessivo delle galere affidate al Doria fu di sessanta. La flotta partì da Genova il 13 luglio 1351; dopo aver fatto scalo a Gaeta e a Messina (24 luglio), non avendo trovato la flotta veneziana - che si voleva affrontare prima del suo ricongiungimento con quella alleata catalana, previsto al largo delle coste siciliane -, il Doria decise di compiere una incursione nel mar Adriatico e si spinse sino a Valona, ottenendo solo la cattura di un legno veneto all'altezza di Corfù.
L'annuncio dell'imminente arrivo della flotta genovese nelle acque orientali ebbe, però, effetti positivi: Niccolò Pisani, che con 22 galere e con l'aiuto di truppe bizantine stava assediando Pera, il quartiere genovese di Costantinopoli, preferì rinunciare all'impresa. Il contatto tra le flotte nemiche si ebbe al largo di Modone: il Pisani riuscì a liberarsi dall'inseguimento cui lo sottopose il Doria ed a rifugiarsi a Negroponte. Qui venne assediato dal Doria, alla fine di agosto. L'assedio fu lungo e tormentato anche per i Genovesi, alle prese con gravi problemi di approvvigionamento; inoltre, il tentativo di occupare la città, scavando una galleria sotterranea, non ebbe successo. Durante questi mesi il Doria si accordò con l'imperatrice di Bisanzio Anna di Savoia per mettere sul trono il figlio di lei; egli provvide a tenere sotto pressione anche le altre forze nemiche, facendo pattugliare l'Eubea da venti navi affidate a Raffaele Imperiale. Alla fine di ottobre la notizia dell'imminente arrivo della flotta veneto-aragonese (comandata da Pancrazio Giustinian e da Poncio di Santapau) costrinse il Doria a rinunciare all'assedio. Fu fatta rotta verso Chio per completare gli equipaggi che erano stati decimati dallo sfortunato tentativo e per ricostruire le provviste di viveri. Il Doria aveva intenzione di dirigersi a Salonicco, per incontrarvi l'imperatrice Anna, ma, informato che essa aveva cambiato i suoi progetti, fece vela su Tenedo, compiendo vari atti di saccheggio (fu occupata Mitilene, costretta a pagare un tributo). Ad Eraclea il Doria fu obbligato a sostare per il vento contrario. Scesi a terra per cercare vettovaglie, i marinai furono assaliti dai Greci ed alcuni di loro vennero uccisi. Benché il Doria desiderasse passare sopra l'episodio per non irritare l'imperatore, che egli si proponeva di staccare dai suoi alleati, i marinai genovesi si opposero e, con la minaccia di una accusa di viltà, lo obbligarono ad assalire Eraclea, che fu presa e saccheggiata. Qui furono fatte razzie di uomini da vendere come schiavi; vennero anche catturati molti notabili, che il Doria fece poi trasportare a Pera, obbligandoli a pagare un riscatto. In loro favore, tuttavia, intervenne il vescovo della città, Filoteo, che si offrì come ostaggio e riuscì a convincere il Doria a liberare i prigionieri senza condizioni. Nel frattempo, i buoni rapporti con gli Osmanli (nemici del Cantacuzeno), non ancora ufficializzati a livello diplomatico, risultarono utili, perché Orhan contribuì a tenere il Doria informato sui movimenti della flotta nemica e non fece mancare aiuti in viveri. Giunto il Doria finalmente a Pera, ai primi di novembre, la situazione rimase a lungo sospesa: il Cantacuzeno attese l'arrivo della tanto sospirata flotta veneto-aragonese, per riprendere l'assedio al quartiere genovese; i Genovesi, a loro volta, raggiunti dalle navi del Doria e liberati per il momento dal pericolo di un attacco nemico, si trovarono alle prese con la scarsità di viveri. Tuttavia, Orhan permise alle navi genovesi di caricare farina in Turchia; altri aiuti vennero dalla colonia di Caffa. Fallito un tentativo di convincere l'imperatore all'accordo, il Doria fece saccheggiare Sozopoli.
Agli inizi di febbraio del 1352 giunse nelle acque di Costantinopoli la flotta veneto-aragonese. Il Doria, per impedire che le navi nemiche si unissero a quelle bizantine, decise con energia di prendere l'iniziativa, approfittando delle traversie che gli avversari avevano incontrato durante la navigazione. Tuttavia, un vento furioso impedì al Doria di attuare il suo piano. Il 13 febbraio egli ripartì alla caccia del nemico, che, nel frattempo, era riuscito a riorganizzarsi, pur essendo costretto a fermarsi in alto mare. Le due flotte si fronteggiarono al largo dell'isola del Principe, benché mancassero solo due ore a sera, il Santapau insistette presso il collega veneziano perché si attaccasse comunque battaglia. Il vento era favorevole agli alleati, per cui il Doria preferì tornare indietro, anche a costo di permettere l'unione del nemico con la flotta bizantina. Superata Galata, egli poi cercò di dare ordine al proprio schieramento, sia pure in modo improvvisato, presso la località detta "Diplokonion". La flotta nemica, spinta dal vento furioso, superò di slancio le navi del Doria, che preferi non inseguirla. Il Santapau ed il Giustinian furono, così, costretti a tornare indietro nel mare in burrasca e ad attaccare battaglia in uno spazio angusto. La battaglia del Bosforo (uno dei più grandi scontri navali del Medioevo) fu caotica, perché nessuno dei contendenti ebbe modo di schierarsi ordinatamente; le navi si divisero in parecchi gruppi che si assalirono in numerosi duelli isolati e violentissimi. Giunta la notte e benché la tempesta continuasse, la battaglia proseguì con incredibile accanimento. Al mattino apparve chiara a tutti l'entità del massacro: gravi furono le perdite subite da entrambi gli schieramenti. Il Santapau, ferito, mori nel marzo a Costantinopoli; nello scontro persero la vita anche il Giustinian ed il viceammiraglio di Valencia, Bernardo de Ripoll. Tuttavia, non ci fu un vincitore, anche se la flotta veneto-aragonese preferì ritirarsi, dando l'illusione ai Genovesi di aver avuto la meglio. In realtà, le perdite furono assai elevate da entrambe le parti: delle sessanta navi che seguirono il Doria sedici andarono perdute, mentre i nemici ne persero ventitré.
Cominciò così un lungo periodo di stallo: fino all'aprile le due flotte si fronteggiarono, ma senza prendere iniziative. Il Doria rimase a Pera circa 18 giorni; il 3 marzo tentò invano di ingaggiare una nuova battaglia col nemico, che preferì sottrarsi allo scontro, tagliando abilmente la strada alla flotta genovese per il ritorno a Pera. Il Doria si vide perciò costretto ad ormeggiare le sue navi sulla costa asiatica del Bosforo in territorio osmanlo. Qui Orhan accolse benevolmente l'alleato, con cui si intensificarono i rapporti. Anche il tentativo, compiuto dal nemico, di convincere il khan a staccarsi dall'alleanza genovese fallì, per cui la flotta veneto-aragonese decise di abbandonare al suo destino il Cantacuzeno e di tornare indietro. L'imperatore, pertanto, fu costretto a venire a patti ed il 6 maggio firmò la pace. Furono riconfermate le convenzioni preesistenti, fatti salvi gli accordi intercorsi tra Orhan ed il Doria; fu riconosciuto di nuovo a Genova il possesso di Pera; il Cantacuzeno si impegnò a non accogliere nei suoi porti navi venete o catalane e a navigare nel Mar Nero solo col permesso genovese. Ai primi di giugno il Doria. salpò da Costantinopoli, facendo rotta verso Altologo e poi verso Chio. Persa la speranza di imbattersi nella flotta nemica, il Doria fece ritorno rapidamente a Genova, dove attraccò l'11 agosto. La spedizione si concluse con un parziale insuccesso e come tale fu sentita in città, dove l'ammiraglio non venne festeggiato. Davanti all'enorme sforzo economico ed umano sopportato dalla Repubblica ligure, si erano avute gravissime perdite senza risultati decisivi, perché la potenza veneziana poteva continuare a presentarsi come pericolosa rivale nel Mar Nero. Due anni dopo il Doria fu nuovamente chiamato a guidare una flotta, questa volta contro il pericolo catalano. La Repubblica genovese armò 24 galere, che si diressero verso le Baleari, giungendo il 29 giugno 1354 al largo di Barcellona. L'improvviso arrivo della flotta nemica costrinse le autorità cittadine a far bruciare una cocca ancorata nel porto, per evitare che cadesse nelle mani dei Doria; costui proseguì poi alla volta di Alghero, ormai sotto il controllo aragonese, e a metà luglio si presentò al largo della città in schieramento di battaglia. Bernardo Cabrera (che in quelle acque aveva gravemente sconfitto una flotta genovese l'anno prima), confidando nella sua superiorità numerica, si preparò ad attaccare il Doria, che, sfruttando la maneggevolezza delle sue navi, cambiò per due volte formazione, nella speranza che si aprissero varchi nello schieramento catalano, ma sempre pronto alla ritirata in caso di scontro frontale. Queste manovre, però, non ebbero successo, per cui il Doria lasciò le coste sarde e ritornò a minacciare da vicino il litorale tra Narbona, Perpignano e Marsiglia. Passato poi in Adriatico, forte dell'appoggio ungherese, compì una serie di scorrerie contro le posizioni veneziane. Furono saccheggiate Curzola e Parenzo, dove il Doria sottrasse i corpi dei santi Mauro ed Eleuterio (trasportati poi a Genova e deposti nella chiesa di S. Matteo). L'ammiraglio veneziano Nicolò Pisani, che aveva a sua volta abbandonato le acque della Sardegna ed era giunto nel settembre ad Otranto, informato dell'accaduto, andò in caccia del Doria, che si era attestato a Chio; qui lo sorprese, ma non riuscì a spingerlo alla battaglia, perché egli stava aspettando rinforzi da Genova.
Questa versione dei fatti, accettata dai cronisti contemporanei, contrasta con le risultanze dell'inchiesta che sull'operato del Pisani venne condotta dagli avogadori de Comun veneziani; fu il Pisani, infatti, ad evitare lo scontro con le galere genovesi, pur essendo queste male equipaggiate ed in difficoltà. In tal modo, egli permise al Doria di ricevere rinforzi dalla Romania. A Cerigo al Pisani fu consegnato un messaggio dal rettore della Canea, che lo invitava a raggiungere Corone, dove avrebbe trovato lettere ducali segrete. Il Pisani si affrettò, giungendovi l'11 ottobre. Secondo la versione dei fatti più diffusa, il nuovo doge Marin Faliero avrebbe ordinato al Pisani di non attaccare il Doria, ma altre fonti cronachistiche negano che il Faliero abbia dato un ordine perentorio in tal senso. Rimangono comunque inspiegabili i motivi che consigliarono l'ammiraglio veneziano ad abbandonare le rocche di Motione e Corone, per appostarsi in un luogo così sfavorevole come Portolongo, nell'isola della Sapienza (inizio di novembre del 1354). Qui gli giunse la notizia che la flotta genovese, rafforzata da dieci galere sotto il comando di Visconte Grimaldi, stava risalendo l'Adriatico. Il Pisani, pertanto, fece rafforzare le difese del porto, per attendervi il nemico. Secondo lo svolgimento più probabile dei fatti, il grosso della flotta veneta (21 galere) fu lasciato inutilizzata al molo, con le imbarcazioni incatenate tra loro, perché il Pisani era convinto che bastassero le restanti 14 galere (affidate a Nicolò Querini), per controllare la stretta imboccatura del porto. Il 3 novembre la flotta genovese, forte di 35 galere, si presentò nelle acque di Portolongo. I Veneziani non accettarono battaglia, per cui dapprima il Doria, ritenendo sfavorevole uno scontro all'interno del porto, decise di tornare indietro, ma fu poi costretto a rinunciarvi per il cattivo tempo. La battaglia divenne, così, inevitabile. Tuttavia, la sua ricostruzione appare problematica: non sono chiari i motivi per cui 15 galere genovesi, condotte da Giovanni, nipote del Doria, furono lasciate entrare nel porto, riuscendo così facilmente a catturare le navi nemiche all'ormeggio. Anche la flotta del Querini, che si trovava all'imboccatura, fu costretta ad arrendersi, perché presa tra le due squadre genovesi. Il Pisani fu fatto prigioniero e venne portato a Genova; secondo il cronista genovese Giorgio Stella, i nemici catturati furono ben 5.400, mentre le fonti venete offrono cifre minori; il Villani concorda con lo Stella; altissimo fu anche il numero dei caduti (forse 4.000). Il Doria, al comando di ben 50 galere, dopo averne lasciato 15 ad incrociare nei mari orientali, ritornò da trionfatore a Genova, alla fine di novembre. In segno di gratitudine, la Repubblica assegnò al Doria una somma corrispondente al valore del palazzo in cui egli risiedeva; fu inoltre decisa una solenne cerimonia, da svolgersi ad ogni ricorrenza della battaglia. Secondo il Federici, il Doria fu, però, mandato in esilio dal doge Simon Boccanegra nel 1356, non sappiamo per quali motivi; egli è ancora ricordato in vita l'anno seguente. Non si hanno altre notizie su di lui dopo questa data. Nel 1372 un Pagano Doria, console dei Genovesi a Cipro, fu protagonista di un violento alterco col bailo veneto per ragioni di precedenza, durante l'incoronazione del re Pietro II; non è possibile stabilire, però, se si tratti del Doria o di un omonimo. Il Doria lasciò nella memoria storica genovese l'immagine di grande ammiraglio e cittadino dedito all'amor di patria; egli non avrebbe accumulato neppure la somma necessaria per la sua sepoltura, che avvenne con funerali a spese pubbliche; la sua tomba fu collocata nella chiesa cittadina di S. Domenico (oggi distrutta).
Ammiraglio veneziano del sec. XIV (non si conoscono le date di nascita e di morte), che si segnalò particolarmente nella terza guerra tra Veneziani e Genovesi (1350-1355) per il primato commerciale nei mari d'Oriente. All'inizio delle ostilità il Pisani ebbe il comando d'una squadra di 15 galee, che condusse nei mari della Grecia e poi a Costantinopoli per concludere per conto della Repubblica veneta un'alleanza con i Greci. Nel 1352 fu nuovamente a Costantinopoli, con una flotta imponente, che tra navi venete e greche contava ben 85 galee. Il 13 febbraio di quell'anno, con vento favorevole, il Pisani risolse di assalire l'armata genovese al comando di Paganino Doria. La battaglia del Bosforo, ostacolata da un'improvvisa furiosa tempesta, ebbe alterne vicende ed esito indeciso: le perdite furono notevoli da ambedue le parti. Il senato, pur deluso nella sua speranza di piena vittoria, confermò il comando a Niccolò, che nell'estate del 1353 si portò nel Tirreno per partecipare con la squadra aragonese all'attacco di Alghero tenuta dai Genovesi. Una squadra ligure al comando del Grimaldi non riuscì ad opporsi all'unione dei due alleati e fu battuta alla Lojera (29 agosto 1353). Dalla Sardegna l'armata veneziana si recò nel Mare Ionio in cerca di quella genovese di Paganino Doria, che invece si diresse in Adriatico. Il Pisani pensò di attirare i Genovesi ad un combattimento per loro sfavorevole, ritirandosi nel Golfo della Sapienza presso Modone, e disponendo opportunamente le sue navi; ma l'audacia e l'abilità del Doria, dopo lunga lotta, ebbero successo, e i Veneziani dovettero arrendersi. Il Pisani con tutta la flotta fu fatto prigioniero il 3 novembre 1354. Quando le due repubbliche nel maggio dell'anno seguente conclusero la pace, il Pisani fu liberato e terminò dimenticato i suoi giorni.
Nel 1350 lo scontro tra Genova e Venezia assunse l'aspetto di una partita decisiva per il controllo del Mar Nero. Il fallimento dell'accordo tra le due potenze per una difesa comune di Caffa e di Tana, minacciate da Djanibek, khan dei Tartari, e l'insediamento dei Genovesi a Chio, col conseguente riavvicinamento tra Giovanni VI Cantacuzeno e Venezia per un attacco contro i Genovesi di Pera, furono gli avvenimenti che fecero precipitare la situazione. La repubblica di Venezia, a questo punto, non volendo rimaner priva a lungo de' profitti del commercio del mar Nero, armò trentatre galere, cariche di mercanzie e di soldati, e le spedì alla Tana sotto il comandodi Marco Buzzini. Quest'ammiraglio incontrò in faccia all'isola di Negroponte undici galere genovesi che andavano a Caffa; le attaccò, e dopo un'ostinata pugna, ne prese nove che mandò a Candia. Le altre due si rifuggirono a Pera coll'ammiraglio Filippino Doria, il quale era con esse scampato dalla disfatta. Questi eccitando i suoi concittadini ad aiutarlo per trarne vendetta, ed avendoli ridotti a seguirlo con sette galere e molte piccole navi, recossi ad assalire improvvisamente la città di Candia; entrò a forza nel porto, bruciò alcune case, liberò tutti i prigionieri fatti nel precedente incontro, e riprese tutte le sue merci e le sue galere che rimandò a Genova tornandosene egli ricoperto di gloria a Pera. Intanto che ciò succedeva, Marco Ruzzini erasi recato a proteggere le navi venete nel mar Nero e nella Palude Mectide. A metà d'autunno attraversò di nuovo il Bosforo, ed avuto avviso che i genovesi di Pera avevano prese nel porto di Candia le navi da lui prese, risolse di vendicarsene. Prima che i nimici potessero avere notizia del suo arrivo, fece entrare di notte quattordici de' suoi vascelli nel porto di Costantinopoli; e siccome i genovesi per certa quale ostentazione avevano costume di lasciare sempre aperte le porte di Pera, i veneziani sbarcarono cheti cheti, ed entrarono in quella città. Per altro, al grido delle scolte, i cittadini corsero all'armi, attaccarono furibondi i veneziani, che avevano già appiccato il fuoco ad alcuni vascelli mercantili, e li costrinsero a rimbarcarsi precipitosamente, ed a prendere il largo. Lo stesso giorno un ambasciatore veneziano, recatosi all'udienza dell'imperator greco, gli propose un'alleanza offensiva colla sua repubblica, onde scacciare i genovesi da Pera e dalla Romania. Per quanto fosse l'odio che Cantacuzéuo doveva nutrire contro di costoro, ci volle starsi neutrale fra que'due rivali egualmente ridottati, persuaso che d'alleanza di uno di questi popoli non gli sarebbe in modo vantaggiosa da compensare i mali che gli cagionerebbe la inimicizia dell'altro. Non altro ci fece quindi che offerire di rinnovar la tregua pattuita tra i suoi predecessori ed il senato di Venezia, il termine della quale stava per ispirare. I veneziani parvero scontenti del suo rifiuto, ma perché la stagione era di già molto avanzata, rimisero alla vela per ritornare nei porti della loro patria.
Da lungo tempo Genova non era stata si' potente come allora, imperciocchè tutte le fazioni erano riunite e vivevano in pace sotto il governo del doge Giovanni di Valente. Il senato approfittò di tanta concordia per mettere in mare nel susseguente anno 1351, sotto gli ordini di Paganino Doria, una poderosissima flotta. Quest'ammiraglio spiegò le vele in luglio del 1351 con sessantaquattro galere, sulle quali trovavasi la metà dei marinai liguri. Egli corse l'Adriatico e guastò molte colonie veneziane delle coste. Mosse in appresso verso l'Arcipelago in traccia di Niccolò Pisani, l'ammiraglio veneziano, che comandava venti galere. Nel 1351, l'ammiraglio Pisani trovavasi in faccia all'isola di Chio, quand'ebbe avviso dell'avvicinamento di forze tanto maggiori delle sue; e tosto disperse la sua flotta per evitarne lo scontro. Egli andò a Costantinopoli con tre vascelli, ed il suo viceammiraglio cercò rifugio cogli altri nel porto di Calcide nell'isola d'Eubea, di già allora chiamata Negroponte. E tratte le sue diciassette galere sulla spiaggia, coll'aiuto di quegli abitanti, sudditi de' veneziani, si pose in istato di difesa. Paganino Doria, non avendo potuto entrare a forza nel porto, lo bloccò. Nello stesso tempo sbarcò parte delle sue truppe ed assediò dalla banda di terra la città di Negroponte, al quale d'uopo fece venire da Pera alcune macchine da guerra. Molti marinai veneziani erano caduti vittima della peste, ed il senato veneto, benché avvertito del pericolo in cui vedevasi la sua flotta nell'isola d Eubea, non avea mezzo d'armarne un'altra abbastanza forte da poterla liberare. Cercò quindi stranieri aiuti, e si volse da prima alla repubblica di Pisa, richiedendola di unire le proprie forze alle veneziane per vendicare la disfatta della Meloria. Ma Pisa era in allora governata dai Gambacorti, uomini nuovi, che non avevano antichi odi da soddisfare, né da trarre antiche vendette. Inoltre erano essi mercanti, e l'interesse della mercatura faceva loro desiderare la continuazione della pace. Non ascoltati dai pisani, gli ambasciatori veneti passarono in Aragona per offrire la loro alleanza al re Pietro IV, già in urto coi genovesi, e per risvegliare l'animosità de' suoi sudditi catalani contro gli abitanti della Liguria. Alcune famiglie genovesi e pisane avevano, dopo la conquista fattane dagli aragonesi, conservati i loro feudi in Sardegna. E visto che Pietro IV d'Aragona aveva tentato di spogliarne i Doria, la repubblica di Genova aveva preso a difenderli e costretto il rea render loro gli usurpati possedimenti. Tale era il motivo dell'odio dell'aragonese contro i genovesi; per la qual cosa accolse avidamente la proppsizione de' veneziani, che gli dava modo di vendicarsi. Egli promise di armare i vascelli che Venezia gli somministrerebbe, con marinai catalani e con soldati arragonesi, e di muover guerra ai genovesi: ed il 3 agosto del 1351 i suoi araldi d'armi vennero a dichiararla al doge, al senato ed al popolo di Genova.
La notizia dell'alleanza de'catalani coi veneziani indusse l'imperatore greco ad abbracciare quel partito ch'egli oramai credeva il più forte. D'altra parte i genovesi parvero piuttosto proporsi di provocare il suo sdegno, che non di calmarlo. Di pieno giorno lanciarono con una balista un masso ingente da Pera sul palazzo, quasi per far prova del tratto della loro macchina, e, malgrado le lagnanze loro fatte in proposito, ne scagliarono l'indomani un'altro. I greci, irritati, chiamarono Niccolò Pisani, l'ammiraglio veneziano, e gli fecero animo ad intraprendere l'assedio di Pera. Di già il Pisani aveva ragunata una nuova flotta di trentadue galere, chiamando a raccolta tutti i vascelli della sua patria sparsi nelle acque della Romania, nel mar Nero e nel mare di Siria. I greci che gli avevano altresi somministrate alcune navi, si accamparono, per secondarlo, appiè delle mura di Pera. Nello stesso tempo Paganino Doria, l'ammiraglio genovese, stringeva l'assedio di Calcide, ove erasi rifuggita una flotta veneziana. Di là aveva intavolato un trattato colla imperatrice Anna di Savoia, cui offriva soccorsi per rimettere suo figlio Giovanni Paleologo sul trono usurpato da Cantacuzéno. Intanto venne da lui sorpresa una nave leggera che faceva forza di vele per recare in Calcide la notizia agli assediati d'un pronto soccorso. Erano state armate cinquanta galere, metà a Venezia e metà a Barcellona, le prime sotto gli ordini di Pancrazio Giustiniani, le altre di Ponzio di santa Paz , ed eransi tutte unite in novembre ne' mari di Messina, di là dirigendosi verso la Grecia. Il Doria non le stette aspettando e fece vela alla volta di Tessalonica per sollecitare l'imperatrice Anna ad accettare la sua alleanza, al che non avendo potuto indurla, sorprese l'isola di Tenedo, ove svernò le truppe e riparò le galere. Il Pisani, lasciando ai greci la cura di continuare l'assedio di Pera, si portò a Negroponte coi vascelli che aveva adunati a Costantinopoli, prese sotto il supremo suo comando le galere ch'erano state assediate in Calcide, e le due flotte giunte da Catalogna e da Venezia. Le tempeste frequenti in quella stagione burrascosa, in cui era costretto di navigare, gli avevano fatte perdere sette navi e due ai catalani, ed alcune altre erano state staccate per secondarie operazioni, ciò nonostante il Pisani trovavasi ancora al comando d'una flotta di settanta galere, che diviso tra i porti di Corone e di Modone, nella Morea, per isvernarvi durante i due peggiori mesi dell'inverno.
All'inizio del 1352 sia i veneziani che i genovesi erano ugualmente impazienti di venire alle mani, ed appena era termine il mese di gennaio, ripresero il mare. I genovesi furono i primi a spiegare le vele verso il Bosforo. Presero per via Eraclea d'assalto, onde vendicare l'uccisione di due loro soldati. Occuparono in appresso Sozopoli, e Paganino Doria poté a stento contenerli quando giunsero a Costantinopoli ch'ei voleano assaltare nella stessa maniera. Frattanto due galere, che quest'ammiraglio aveva spedite a Gallipoli, tornarono il sette febbraio, dandogli avviso che l'armata veneziana e catalana composta di sessantasette galere, entrava in quel giorno in Pregknonesos, o porto dell'isola del Principe, posta alla bocca dela Propontide dalla banda dell'Ellesponto. Le burrasche, frequenti in quegli angusti mari, ritennero alcun tempo le due flotte quasi prigioniere; la veneziana nel porto dell'isola del Principe, la genovese in quello di Calcedonia. Finalmente il vento australe, che da lungo tempo dominava su quelle acque, parve alquanto calmato, il lunedì 13 febbraio, e Paganino Doria schierossi in fila con sessantaquattro galere alla bocca del Bosforo di Tracia per impedire ai veneziani l'ingresso di Costantinopoli. Questi erano partiti lo stesso giorno dall'isola del Principe, e s'avanzavano a piene vele; erasi di nuovo rinfrescato il vento australe, e perché soffiava da più giorni, le correnti portavano il flutto con veemenza verso Costantinopoli. S'avvide il Doria che non avrebbe potuto resistere all'urto de' vascelli veneziani, secondati dal vento e dalla corrente, perlocché si strinse al lido d'Asia e lasciò libero il passo alla flotta del Pisani, la quale entrò trionfante nel porto di Costantinopoli.
Costantino Tarcaniota, l'ammiraglio de' greci, si unì ai Veneziani nel porto con otto galere ed un gran numero di navi, e indusse il Pisani ad approfittare della maggioranza di sue forze, a ritornare immediatamente contro la flotta nemica, ed a presentarle battaglia. I vascelli genovesi avevano sofferto assai nell'armatura, perchè s'erano tenuti all'ingresso del Bosforo malgrado il vento e il mar grosso. Il Doria non aveva ancor potuto riunire la sua flotta, e nel rientrare nel porto di Calcedonia, vide accostarsi quella de'veneziani. Altro far non potendo, approfittò della perfetta perizia di quegli angusti mari per appostarsi con sette vascelli, fuori delle correnti e dei marosi, in un seno circondato da scogli e da bassi fondi, e ordinò in pari tempo e diede il segnale al rimanente della flotta di avvicinarsi a lui durante la battaglia. Nicolò Pisani e Ponzio di santa Paz, invece di attaccare il Doria, fecero forza di remi per tagliar, fuori le altre galere, che il Doria aveva chiamate. Frattanto il vento ognor più s'ingagliardiva, oscure nubi si abbassavano e parevano posare sugli alberi de' vascelli, l'orizzonte s'andava ottenebrando ognor più, sicché non si vedeano che gli scogli contro i quali andavano a rompersi i grandi marosi: rottami di nave qua e là travolti dal flutto intorno ai combattenti annunziavano disastri, di cui non conoscevansi le circostanze, né più si poteano scorgere i segni dall'una all'altra estremità della stessa flotta. Alcune delle galere genovesi non potendo accostarsi al loro ammiraglio, gettarono l'ancora e si nascosero tra gli scogli di cui i loro piloti conoscevano tutti gli andirivieni. I catalani, affatto nuovi in que' mari, volendo attaccare iloro nemici in mezzo agli scogli a fior d'acqua, ed ai bassi fondi, perdettero molta grinta e molte navi. Tre galere veneziane avevano intanto attaccato l'ammiraglio genovese, due da prora e una da fianco. Colà cominciò la accanita pugna, perché tutto il rimanente delle due flotte cercava di avanzarsi su questo punto. Sì accorte e intese furono le mosse dell'ammiraglia genovese che i tre vascelli veneziani dovettero soccombere, e furono presi. D'altra parte dieci galere genovesi, spinte verso sant'Angelo, non potendo difendersi, furono mandate a rompere sulla riva da loro stessi marinai, che fuggirono a Pera, abbandonando le navi ai veneziani che le bruciarono. Tre altre galere corsero la stessa sorte in un altro piccolo golfo; per ultimo sei altre galee genovesi, inseguito a traverso al Bosforo, fuggirono nel mar Nero. Ma non furono decisivi né ivantaggi nè le perdite, imperciocchè le due flotte, divise dalla violenza del vento, dagli scogli, e dai promontorii dell'ingresso del canale del Bosforo, combattevano contemporaneamente in sette od otto luoghi.
Finalmente sopraggiunse la notte, oscura come suol essere dopo un giorno burrascoso d'inverno; il rombazzo del vento furioso, il mugghiare delle onde, le grida de' remiganti e quelle de' feriti risuonavano intorno agli scogli di Scutari e di Bisanzio. Le vacillanti fiaccole de' vascelli appena erano visibili nella densità della nebbia, e vedevansi a vicenda risplendere e scomparire a seconda che le grosse onde sollevavano, o lasciavano ire in fondo le navi. A mezzo di così spaventosa oscurità, gl'intrepidi genovesi di Pera scorsero con leggeri schifi tutti i seni delle due coste dell'Europa e dell'Asia per raccorre i loro feriti, dar soccorso ai vascelli pericolanti, e sorprendere i loro nemici dispersi. Secondo ch'essi andavano avanzando colle loro fiaccole, molte navi veneziane o catalane, volendo tener dietro a quelle ingannatrici scorte, andarono a picco sopra bassi fondi, altre entrarono da sè inavvedutamente nel porto di Pera, ove furono fatte prigioniere, altre finalmente s'arresero, senza combattere, a nemici meno terribili della burrasca e degli scogli. I due ammiragli col grosso delle flotte nemiche trovavansi intanto uniti nella baia di san Foca: s'udivano gli uni gli altri gettar intense grida senza vedersi, ed in mezzo alla burrasca non cessavano di minacciarsi, e qualunque volta uno sbuffar di vento avvicinava alcune navi nemiche, approfittavano della circostanza per venire alle mani. Così passò la notte del 13 al 14 febbraio del 1352. Prima che facesse giorno, Nicolò Pisani, che vedeasi più debole, lasciò la baia di san Foca per ripararsi nel porto di Terapea o Trapenon, difeso dai greci. Allo spuntar del sole, il mare, che cominciava ad acquetarsi, apparve alla vista copertò di cadaveri, e di rottami di navi. I genovesi s'avvidero allora d'aver perdute tredici galere, oltre le sei che si erano salvate nel mar Nero. E benché ne avessero predate quattordici ai veneziani, dieci ai catalani e due ai greci, fatti milleottocento prigionieri, ed uccisi duemila nemici, con tutto ciò la perdita loro era troppo grande perché potessero rallegrarsi della vittoria. Rimandarono a Costantinopoli quattrocento prigionieri feriti, di ch'essi non potevano prender cura.
Intanto che le due flotte, riparatesi l'una in Pera, l'altra in Terapea, riparavano i sofferti danni Cantacuzéno facea calda istanza al Pisani perché attaccasse i genovesi, approfittando della presente loro debolezza, e Ponzio di santa Paz instava pur egli a prò dell'inchiesta dell'imperatore. L'ammiraglio aragonese era caduto infermo per dispetto della sofferta rotta, e poiché seppe che il Pisani non voleva rinnovare la battaglia, se n'afflisse in modo che morì di crepaeuore. Stefano Contarini e Pancrazio Giustiniani, procuratori di san Marco, Giovanni Steno e Benatino Bembo, viceammiragli de' veneziani, erano morti in battaglia o dopo la battaglia, per le ricevute ferite. I genovesi furono i primi a rimettersi in mare per chiudere il porto di Terapea; ma il Pisani approfittando d'un vento fresco, passò frammezzo ai loro vascelli; usci' dal mare di Romania con sole trentotto galere; e venuto a dar fondo a Candia vi depose gli ammalati ed i feriti; ma questi erano in tanta copia, che ben tosto si manifestò negli ospedali un morbo epidemico il quale comunicossi pure ai candiotti. Partiti i veneziani, il Doria rivolse tutte le sue forze contro i greci. Coll' assistenza dell'Orcano, figliuolo d'Ottmano, fondatore dell'impero turco, formò l'assedio di Costantinopoli, e costrinse Cantacuzéno a rinunciare all'alleanza de' veneziani, ed a sottoscrivere il 6 marzo del 1352 una pace separata colla repubblica di Genova. I porti della Grecia furono chiusi ai veneziani ed ai catalani, e data ai genovesi assoluta libertà di traffico. Il Doria in appresso navigò verso Creta, sperando di trovare ancora a Candia i veneziani, ma il morbo dominante in quell'isola invase la sua flotta; e nel tragitto da Candia a Genova, ove Paganino Doria arrivò in agosto con trentadue galere, egli fu costretto di gettare nelle onde i cadaveri di mille cinquecento de' suoi commilitoni. In tal modo ebbe fine una campagna in cui le due repubbliche marittime avevano bensì dato prove del loro valore e della abilità de' marinai, ma si erano pure miseramente a vicenda esaurite di uomini e di danaro senza ottenere verun vantaggio.
Bibliografia:
"Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo", Tomo VI, J.C.L. Simondo Sismondi, Capolago presso Mendrisio, 1831